sexta-feira, 20 de janeiro de 2012
a alta melancolia do deus que foge
LACRYMAE RERUM
Giovanni Prati
Saltem si, rebus fractis, mihi nomina restant!
A voi, fior della terra, a voi, gioconde
Stelle del cielo, i sogni e le speranze
Della ridente gioventù son pari.
Se non che l’astro e il fior passano immuni
Da colpa e da castigo, e noi travaglia
Pur giovinetti una tristezza arcana,
Quando parliam col limpido pianeta
E colle rose.
Sulla verde cima
Delle mie rupi, in margine a’ miei laghi,
Nel silenzio dell’ombra, oh! quante volte
Piansi pur io fanciullo, il ciel mirando
Pien di tremoli fochi o il sottoposto
Pendio stellato di silvestri gigli
E di pervinche!
In verità, si piange
Dunque nel mondo, e sin la primavera
Ha le lacrime sue. Forse non solo
Piangon gli occhi dell’uom, ma la pupilla
Pur dell’avida belva il pianto oscura.
Mai non vedesti, Elisa, un errabondo
Can, che ha smarrito il suo signor, corcarsi
Malinconico in terra? O sotto l’ala
Piegar la testa un povero augelletto
In gabbia d’ôr? Dai perfidi spiragli
Il bel verde de’ campi e il cielo ei guarda,
E la perduta libertà sospira.
Tutte piangon le cose; e i petti affanna
Ciò ch’è nato a perir.
Voi che venite,
Pellegrini del mondo, a questa Roma,
Non per recar nelle native terre
Qualche santo rosario od amuleto,
Ma per chinarvi a interrogar la spoglia
Dell’olimpico Lazio, il pianto vostro
Colle rugiade dell’eterna luna
Qui spargerete, e in qualche ermo cespuglio
Del Palatin la capinera al vento
Lancerà la sua nota.
Or io mi levo
Sulle alture del Celio, e mentre l’ôra
Nei sacri mirti come fa, si tace,
Pellegrini del mondo, a voi favello:
Questa Roma di Dardano, per molti
Rischi di terra e mar, seco ha recato
Colle ceneri d’Ilio il suo destino.
Qua giunse larva nel pensier d’Enea,
E qua crebbe e regnò. L’arido bruco
Nel novilunio suo non altrimenti
Fatto è farfalla. Un’intima possanza
Trasfigura le cose, e dalla morte
Nasce la vita, ed ambedue compagne
Van per la terra, altar di maraviglie
E di ruine.
Ma perpetuo il falco
Garrisce al monte, ma s’abbraccia il Sole
Col perpetuo nettuno e col deserto,
Mentre l’ora dell’uom va più veloce
Che non la rota della sua fortuna
Senza ritorni.
Virïate, il prode
Fulminator dai cantabri dirupi,
Come passò? dov’è l’asta di Brenno?
Dove il biondo cherusco e l’implacato
Cartaginese?
Io per le ripe indarno
Cerco Cesare nostro e le vestali
E i pontefici sacri: odo il galoppo
Del caval d’Alarico, e penso e piango,
Pellegrini del mondo, insiem con voi!
Figlio d’Italia, in vetta alle nevose
Mie tirolesi balze ebbi la cuna
Come il camoscio, e le varcai cantando
Fra’ miei vecchi pastori.
E ancor la squilla
Delle mandre disperse alla boscaglia
Nel cor mi suona, e dalle chiese alpestri
Gemere ascolto il passero solingo,
E rivedo le vie che i battaglioni
Vider di Francia ed or sotto l’accesa
Ferza canicular son traversate
Dal fulmineo ramarro.
Agile e fresca
Allor ne’ polsi mi correa la vita
E nello spirto: allor caro soltanto
M’era il mio borgo, e mi parea più noto
Che non il Tebro, eredità di Giove,
Il più ignoto ruscel delle mie valli.
Oggi, affranto le membra e misto il crine,
Me condusser le Parche alla fatale
Città d’Ascanio; ed ospite pensoso
Odo dalle disfatte are il lamento
Dei numi d’Asia, e porto, a quando a quando,
Sul Gianicolo sacro o l’Aventino
L’alte malinconie del dì che fugge.
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